Nonostante i semiconduttori siano esenti dai dazi introdotti dall’amministrazione Trump, il tonfo dei titoli del settore è secondo solo alla bolla delle dot-com di 25 anni fa.
A due giorni di distanza dall’introduzione dei dazi da parte di Donald Trump, gli indici azionari dell’industria globale dei semiconduttori hanno subito il peggior calo dalla bolla delle dot-com dell’anno 2000.
L’indice PHLX Semiconductor ha perso negli ultimi due giorni oltre il 16%, perdita che sale al 33% dall’inizio del mandato di Donald Trump (20 gennaio 2025).
Da quella data, NVIDIA ha perso il 33%, Broadcom il 43%, Micron il 39%, Analog Devices il 25%, Texas Instruments il 21%, AMD il 29% e TSMC il 34%.
In Europa, STMicroelectronics ha perso il 31%, ASML il 20%, NXP Semiconductors il 25% e Infineon Technologies il 24%.
Soffrono anche gli indici globali: dal 20 gennaio 2025 l’S&P 500 ha perso oltre il 15%, il Nasdaq Composite più del 20%, il Dow Jones il 12%.
Nonostante i semiconduttori siano stati esentati da qualsiasi dazio, la guerra alla globalizzazione scatenata da Trump non poteva non colpire il comparto industriale con la catena di fornitura più globalizzata di tutte, ovvero quello dei semiconduttori.
Un comparto fortemente globalizzato
Ormai, le aziende più importanti che producono semiconduttori si occupano solo della progettazione, dando in appalto la fabbricazione dei chip alle cosiddette foundry, che a loro volta utilizzano materie prime e wafer provenienti da altre aziende e altri Paesi. Anche gli impianti utilizzati per la produzione provengono da Paesi e fornitori sparsi in tutto il mondo. Dalle fonderie, i chip vengono poi inviati alle aziende specializzate che si occupano del confezionamento e del test, con spostamenti continui tra un Paese e l’altro. Dalle materie prime al prodotto finito, i chip attraversano numerosi confini e si spostano da un continente all’altro.
È evidente che introdurre dei dazi, anche minimi, su questi prodotti avrebbe messo in ginocchio questo meccanismo così globalizzato.
Allora perché il comparto dei semiconduttori è quello che ha subito le maggiori ripercussioni dall’introduzione dei dazi di Trump?
La spiegazione è molto semplice.
I semiconduttori sono presenti in tutti i prodotti e abilitano tutti i servizi che utilizziamo quotidianamente. Il pensiero va subito a smartphone, PC, TV, internet, ma questi sono solamente una parte, seppure consistente, dei prodotti che utilizzano i semiconduttori. Se gli aerei volano, i treni viaggiano e le auto corrono lungo le strade è perché i semiconduttori ne controllano il funzionamento; se le fabbriche producono, i medici possono operare e satelliti e ponti radio garantiscono la presenza di internet ovunque, è perché tutti gli strumenti e le apparecchiature utilizzate contengono centinaia o migliaia di chip.
Non c’è dispositivo, attrezzatura o macchinario moderno che possa funzionare senza i semiconduttori.
È evidente che la diffusione e la richiesta di semiconduttori rallenta quando il commercio e le vendite di merci e prodotti subiscono brusche battute d’arresto.
Ecco spiegata la ragione del fortissimo calo delle quotazioni azionarie che ha colpito le aziende che producono chip.
I timori di recessione mondiale
Il timore è anche quello che dazi e contro-dazi possano portare a un più difficile accesso ai mercati globali, limitando le vendite ai mercati nazionali o regionali. Ad esempio, i produttori americani di semiconduttori (che hanno una quota di mercato globale di circa il 50%) potrebbero avere maggiori difficoltà a vendere i loro chip in Cina, India e forse anche in Europa se si scatenasse una guerra commerciale ancora più dura.
I dazi potrebbero portare anche a una recessione mondiale con conseguente rallentamento di investimenti e consumi, che potrebbe colpire pesantemente l’industria globale dei semiconduttori.
Alla base di questa guerra commerciale c’è il tentativo dell’amministrazione Trump di porre un freno al crescente deficit commerciale statunitense e all’incremento del debito pubblico, che a fine 2024 ha superato i 36 trilioni di dollari, pari a circa il 130% del PIL.
Sullo sfondo, la guerra per la supremazia mondiale con la Cina, la cui crescita sta minacciando l’egemonia economica, politica e militare degli Stati Uniti.
E all’interno di questa guerra, il comparto dei semiconduttori, per i motivi che abbiamo descritto in precedenza, rappresenta uno dei campi di battaglia più importanti.
Lo scontro con la Cina sui semiconduttori
Negli ultimi 15 anni, l’industria cinese dei semiconduttori, sostenuta con tutti i mezzi dal governo di Pechino, ha fatto passi da gigante, soprattutto nel settore delle tecnologie mature, ovvero nei nodi di processo a partire dai 22/28 nm. L’obiettivo della Cina è quello di raggiungere innanzitutto l’autosufficienza in questo settore, dove il Paese registra un deficit commerciale di oltre 200 miliardi di dollari, superiore a quello energetico.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’obiettivo – in linea con le precedenti amministrazioni – è quello di impedire che la Cina possa accedere alle tecnologie più avanzate, ma anche quello di riportare la manifattura di questi semiconduttori sul suolo statunitense. Attualmente, il 92% dei chip di questo tipo viene prodotto a Taiwan, l’isola che Pechino considera una provincia ribelle da riportare sotto il suo controllo “pacificamente o militarmente”.
Per ottenere questo risultato, l’amministrazione Biden ha imposto restrizioni sempre più severe all’esportazione di tecnologia occidentale verso la Cina e ha varato un piano di incentivi (il cosiddetto CHIPS and Science Act) per convincere le aziende straniere come TSMC (Taiwan) e Samsung (Corea) ad aprire stabilimenti negli Stati Uniti.
Agli incentivi, l’amministrazione Trump preferisce lo strumento dei dazi per convincere le aziende a venire a produrre negli Stati Uniti.
Al momento, entrambe le strategie sembrano aver dato i frutti sperati. Sia TSMC che Samsung sono a buon punto con le nuove fabbriche nate durante l’amministrazione Biden, mentre in questi mesi lo spauracchio dei dazi di Trump ha convinto TSMC a programmare la costruzione di altre due fabbriche negli Stati Uniti.
Se dal punto di vista della capacità manifatturiera gli obiettivi sembrano raggiunti (resta l’incognita dei maggiori costi produttivi e della scarsità di manodopera specializzata), forti dubbi riguardano la capacità di bloccare lo sviluppo tecnologico dell’industria cinese dei semiconduttori.
Quasi tutti gli osservatori concordano sul fatto che le sanzioni abbiano rallentato in maniera significativa lo sviluppo dell’industria cinese; molti, tuttavia, sostengono che le sanzioni abbiano moltiplicato gli sforzi della Cina per sviluppare tecnologie proprietarie che altrimenti non avrebbe rincorso con tanta determinazione, avendo a disposizione quelle occidentali.
La tecnologia EUV
Per quanto riguarda le tecnologie più avanzate, la vera discriminante è la capacità degli scanner litografici: per produrre chip con nodo di processo ≤ 5 nm è necessario ricorrere alla tecnologia EUV, alla quale la Cina non ha accesso.
Con investimenti miliardari, Pechino ha messo nel mirino proprio questa tecnologia strategica, che le consentirebbe di colmare il divario e mettere in discussione il predominio tecnologico di Stati Uniti e Paesi occidentali nei semiconduttori avanzati.
In un recente articolo ci siamo occupati di questo argomento, raccontando tutti gli sforzi messi in campo dalla Cina per raggiungere questo obiettivo che, a nostro avviso, resta ancora molto lontano, nonostante alcuni recenti annunci.
A meno di improbabili stravolgimenti geopolitici o tecnologici, i produttori cinesi rimarranno inchiodati al limite dei 5 nm per molti anni ancora, mentre le aziende occidentali e i loro alleati asiatici arriveranno a produrre chip con nodo di processo fino a 1 nm.