lunedì, Maggio 6, 2024
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Che fine ha fatto il fab di Intel in Italia? Secondo la Reuters aprirà in Veneto e Draghi lo annuncerà dopo il voto

Forte aumento dei costi energetici, mutata situazione geopolitica, mercato dei semiconduttori in calo e disponibilità dei fondi del CHIPS Act americano sembravano aver affossato l’iniziativa italiana di Intel. Ora sembra che Draghi sia pronto per lo storico annuncio che verrà fatto dopo la diffusione dei risultati del voto.  

Se ne è parlato per mesi, ancora prima che Intel annunciasse il suo piano di investimenti in Europa nel marzo di quest’anno. Un piano che già allora non conteneva alcuna precisa indicazione riguardante il nostro paese mentre, ad esempio, forniva indicazioni dettagliate sul nuovo mega fab da realizzare in Germania con un investimento di 17 miliardi di dollari, o sul centro di Ricerche e Sviluppo da realizzare in Francia.

Nel caso degli investimenti in Italia, il piano di Intel indicava genericamente un “potenziale investimento” fino a 4,5 miliardi di euro, e segnalava che le trattative col governo italiano erano ancora in corso. Nel comunicato, la società californiana citava la possibilità di creare 1.500 posti di lavoro diretti e 3.500 nell’indotto, con l’inizio dell’attività tra il 2025 e il 2027.

Poche settimane prima, all’inizio di marzo, il Governo italiano varava una legge che stanziava 4,15 miliardi di euro a sostegno dello sviluppo della microelettronica nel nostro paese.

Anche se nel decreto il nome di Intel non compare (non può essere altrimenti), lo stanziamento era chiaramente destinato a chiudere l’accordo con Intel, concedendo alla società californiana un contributo – dal 2022 al 2030 – pari al 50% del costo dei nuovi impianti.

Per mesi non si è saputo più nulla delle trattive fino a quando, ai primi di agosto, l’agenzia Reuters scriveva che, secondo indiscrezioni attendibili, la firma dell’accordo tra Intel e il Governo italiano era imminente. L’agenzia di stampa aggiungeva che l’accordo riguardava un impianto per il packaging avanzato da realizzare in Piemonte o in Veneto con un investimento di circa 5 miliardi di dollari. La Reuters dava praticamente per certa la firma entro il 25 settembre, ovvero prima delle elezioni e dopo il passaggio di consegne tra il Governo Draghi e la coalizione che sarebbe uscita vincitrice dalle urne.



Oggi è domenica 25 settembre, e di questo accordo non si è saputo più nulla, né in un senso né nell’altro mentre, ad esempio, il Governo ha preso una decisione sicuramente importante sul futuro di ITA, la compagnia nata dalle ceneri di Alitalia.

Sul filo di lana, ecco dunque il comunicato della Reuters di oggi, che dà per certo l’accordo e segnala anche che la regione prescelta è il Veneto, più precisamente il comune di Vigasio, nel Veneto nord-occidentale.

L’esigenza di rafforzare il settore manifatturiero della microelettronica in Europa e negli Stati Uniti nasce dal pericoloso squilibrio che caratterizza questo settore, con la capacità produttiva combinata di semiconduttori di Europa e USA che non supera il 20% della capacità globale, pur mantenendo le società americane ed europee il controllo del mercato mondiale di questi prodotti con una quota di circa il 60%. Nel corso degli ultimi 3/4 decenni, un numero crescente di aziende occidentali ha delegato l’attività manifatturiera ad aziende specializzate con sede in Asia, in particolare a Taiwan e nella Corea del Sud. Attualmente le fabbriche di questi due paesi sono le uniche in grado di realizzare chip avanzati (con nodo di processo a 5 nm o inferiore), utilizzati prevalentemente negli smartphone e nei personal computer. Anche per il packaging ed il test (le cosiddette attività di back-end) si fa ampio ricorso agli stabilimenti asiatici.

Nonostante una logistica più complessa, la globalizzazione della produzione e l’elevata specializzazione hanno portato ad una forte capacità di innovare e ad una maggiore produttività, con conseguente abbassamento dei costi.

Lo spostamento delle attività manifatturiere verso l’Asia ha anche consentito alle aziende di semiconduttori di essere vicine al principale cliente mondiale, ovvero alla Cina, le cui fabbriche assorbono circa il 60% della produzione mondiale di chip, 350 miliardi di dollari circa su 550 miliardi di valore complessivo.

Questo ben oliato meccanismo è andato in crisi durante il periodo della pandemia a causa (questa è l’opinione prevalente) delle interruzioni alla catena di approvvigionamento globale.

In realtà, come dimostrano i dati sulla produzione, nonostante le difficoltà della logistica, nel 2020 e nel 2021 l’industria mondiale è riuscita a produrre molti più semiconduttori che in passato.

Il vero problema è stato l’incredibile aumento della domanda nonché l’accaparramento di chip da parte di numerose aziende cinesi che ha consentito all’industria di quel paese di superare indenne la carenza globale di semiconduttori. Al contrario, la penuria di chip ha colpito pesantemente alcuni comparti industriali, come quello dell’auto, dei paesi occidentali e del Giappone.

A tutto ciò si debbono aggiungere importanti problemi di natura geopolitica, con la Cina che rivendica la sovranità di Taiwan e la Corea del Sud ancora formalmente in guerra con la Corea del Nord. Una situazione decisamente troppo pericolosa per un settore, quello dei microchip, che ormai ha un’importanza strategica pari a quella che aveva (e che ancora in parte ha) del petrolio.

Sullo sfondo restano le ambizioni cinesi di raggiungere l’autosufficienza produttiva e tecnologica anche in questo settore e gli sforzi degli Stati Uniti di bloccare questo percorso impedendo alle aziende cinesi di accedere alle tecnologie occidentali più avanzate, ancora necessarie per eccellere in questo settore.

Questa situazione ha indotto Stati Uniti, Europa e Giappone a tentare di incentivare le produzioni nazionali mediante aiuti e contributi pubblici. A tale scopo in Europa è stato approvato a febbraio l’European Chips Act con lo stanziamento di decine di miliardi di euro mentre ad agosto è stato approvato negli Stati Uniti il CHIPS and Science Act con contributi all’industria dei semiconduttori per 52 miliardi di dollari.

Negli USA l’approvazione della legge ha messo in moto o accelerato numerose iniziative e investimenti in questo settore, come riportato ieri.

In Europa, invece, le cose sembrano andare molto più a rilento e dell’iniziativa di Intel si torna a parlare solo oggi, dopo il comunicato della Reuters.

Cosa è successo o cosa è cambiato in questi ultimi mesi che ha determinato questo rallentamento?

Sicuramento un ruolo importante lo ha avuto l’incredibile aumento dei prezzi dell’energia in Europa che sta mettendo in ginocchio interi comparti industriali. E l’industria dei semiconduttori è una delle più energivore nonostante i recenti miglioramenti sul fronte dell’efficienza energetica. A questo proposito si cita sempre il caso di TSMC le cui fabbriche consumano il 5% di tutta l’energia elettrica prodotta a Taiwan. In mancanza di sostegni pubblici anche su questo fronte, i costi produttivi di Intel in Italia sarebbero decisamente superiori rispetto a quelli che Intel deve affrontare negli Stati Uniti o in altre aree del mondo. Eventuali sussidi anche su questo fronte farebbero salire il conto per il nostro paese. C’è anche da considerare il fatto che la recente approvazione del CHIPS Act americano mette in competenza Europa e Stati Uniti su questo piano, con i contribuiti (molto generosi) dei singoli Stati americani che possono fare la differenza. Perché Intel dovrebbe impegnarsi in Europa se a casa propria i contributi pubblici complessivi sono più alti?

Anche la recessione globale che si profila all’orizzonte con il calo del mercato dei semiconduttori che diventa ogni giorno più tangibile può sicuramente avere un ruolo nel rimandare (o annullare) alcuni investimenti. E siccome su quelli già annunciati o sottoscritti non si può tornare indietro, non resta che bloccare quelli sui quali si sta ancora trattando.

Al di là del quadro generale, c’è la crisi profonda – tecnologica, commerciale e finanziaria – di Intel. In molti ritengono che la roadmap tecnologica annunciata in primavere che dovrebbe fare recuperare la leadership mondiale all’azienda entro il 2025/2026 sia poco più che un’operazione di marketing. Sul fronte tecnologico la società è stata costretta a rivolgersi a TSMC per realizzare i propri chip più avanzati, è stata abbandonata da Apple per i processori per PC (che ora se li realizza da sola e che hanno surclassato quelli di Intel) ed è sotto pressione da parte di AMD sui processori per data center e server. Intel ha anche detto addio agli SSD Optane per il mercato consumer ed ha venduto la sua divisione NAND alla coreana SK hynix.

Per quanto riguarda i ricavi, nel secondo trimestre del 2022 le vendite di Intel sono crollate del 22% e la società, dopo decenni, ha chiuso in perdita il trimestre per 454 milioni di dollari, contro un utile di 5,1 miliardi nello stesso periodo del 2021.

Infine, le quotazioni di borsa di Intel sono scese da inizio anno del 48,28%, passando da 53,14 dollari per azione a 27,52 dollari. Nello stesso periodo, per fare dei confronti, il Nasdaq ha perso il 31,36% e l’S&P 500 il 23%.

Insomma, una situazione non certo delle migliori. L’unica nota positiva riguarda la definitiva approvazione del CHIPS and Science Act americano ed i relativi contributi che, è stato calcolato, andranno per il 50% al colosso californiano dei chip.

A parte questi problemi, dobbiamo considerare la necessità – per una iniziativa come quella di Intel in Italia – di un ecosistema adeguato alle caratteristiche di un impianto così avanzato.

Tra tutti, segnaliamo quella della disponibilità di ingegneri e specialisti in questo settore. Un problema che è emerso in tutta la sua ampiezza durante le tavole rotonde che si sono svolte a margine delle Conferenze IEEE ESSCIRC – ESSDERC di questa settimana a Milano presso l’Università Bicocca. Attualmente sono circa 400 gli ingegneri e i fisici specializzati in microelettronica che si laureano presso le nostre università ogni anno, un numero assolutamente insufficiente rispetto alle attuali esigenze delle aziende italiane. “Dove prenderà Intel gli ingegneri che lavoreranno nella futura fabbrica in Italia?” si è chiesto Alessandro Matera, amministratore delegato di Infineon Technologies Italia durante una tavola rotonda.

Che sia questo uno dei problemi più importanti che ha bloccato sino ad oggi l’iniziativa di Intel nel nostro paese? Forse lo sapremo già domani. 

Nel frattempo, uno degli ultimi provvedimenti del Governo Draghi è stato quello di stanziare 340 milioni di euro a fondo perduto a favore di STMicroelectronics, la più importante azienda del settore che opera in Italia.